Fabrizio Torchio, commercialista ed esperto di consulenza ordinaria e straordinaria nell’ambito del diritto di impresa, titolare dello studio omonimo: «E’indubbio che i dati personali abbiano una valenza crescente, economica ma non solo. La loro analisi può consentire, ad esempio, di sviluppare business o crearne di nuovi». E il loro valore può essere iscritto al bilancio…

Quanto valgono i dati personali dei clienti che gli intermediari assicurativi raccolgono nel contesto della loro attività? Si possono monetizzare?
Nel dibattito generale riguardante questo delicato e spinoso tema rientrano anche questi aspetti. E questo al di là del rapporto con la mandante o con le mandanti. L’argomento è stato trattato da Fabrizio Torchio, commercialista ed esperto di consulenza ordinaria e straordinaria nell’ambito del diritto di impresa, titolare dello studio omonimo, in occasione di un recente webinar organizzato dallo studio Floreani.
«In una economia digitale, quale quella in cui viviamo, è indubbio che i dati personali abbiano una valenza crescente, economica ma non solo», ha esordito Torchio. Il motivo è semplice: «L’analisi dei dati può consentire, ad esempio, di sviluppare business o crearne di nuovi. Ecco, quindi, che la raccolta e l’acquisizione dei dati assume sempre più rilevanza».
Torchio ha ricordato come sia un qualcosa di «inevitabile», nell’attività di impresa che viene quotidianamente svolta, che ci si trovi a raccogliere dati personali dei clienti con cui si lavora. «È una raccolta di base, che porta ad avere a disposizione una lista dati cosiddetta “semplice”, ovvero non profilata, quali sono le anagrafiche disponibili a livello informatico, oppure ad avere informazioni che traggono origine dalla conoscenza approfondita dei clienti, ma che sono spesso archiviate solo mentalmente da parte dell’imprenditore».
L’utilizzo dei dati è strettamente legato al consenso del loro trattamento. In altre parole, ha osservato Torchio, «il consenso è il presupposto giuridico per l’utilizzo dei dati nonché l’elemento fondamentale per dare valore agli stessi, in quanto più è ampia la possibilità di utilizzare il dato sulla base del consenso, più quei dati hanno potenzialmente valore».
Ma quanti imprenditori hanno pensato di capire quanto vale il portafoglio dati a loro disposizione?
«Il valore attribuibile ai dati», ha affermato Torchio, «è diverso a seconda che il titolare del consenso li voglia cedere o utilizzare direttamente a livello economico, cioè sfruttarli in termini di business. In ogni caso è importante, nell’ottica della valorizzazione dei dati, avere a disposizione un archivio aggiornato e completo dei dati raccolti, e contemporaneamente capire quale sia l’ampiezza del consenso ottenuto per poterli utilizzare».
Per Torchio, gli obiettivi che ognuno si dà, con riferimento ai dati che si hanno a disposizione, «determinano il modo di valorizzarli».
Quali sono, quindi, gli obiettivi che si può dare chi è titolare del trattamento dei dati? Torchio li ha suddivisi in tre categorie: «la cessione della lista dati “semplici”; il trasferimento dell’azienda che ha a disposizione la titolarità dei dati; lo sfruttamento economico del dato all’interno della stessa azienda».
Analizziamo il primo caso, vale a dire “pensare” il valore dei dati nella visione della loro possibile cessione. «Disponendo del consenso alla cessione dei dati», ha osservato Torchio, «il valore che possono avere ai fini di una cessione a un “data broker” lo fissa generalmente quest’ultimo, considerando che la lista dati “semplice” ha un valore economico di mercato diverso (inferiore) rispetto a quello della lista dati “complessa”, che richiede un’attività di data engineering (raccolta e convalida dei dati) e una di data analisys (interpretazione dei dati per lo sviluppo di business)».
Secondo caso: si hanno dei dati e si vuol capire quanto valgono non per cederli, ma per sviluppare un business. Come si fa a valorizzarli? «La valorizzazione, nel caso di utilizzo dei dati in un business interno all’azienda, è effettuata sulla base dei dati storici e/o prospettici dei flussi reddituali (ritraibili direttamente dai dati) attualizzati».
Entrando più nel dettaglio, si deve partire «stimando per quanti anni si prevede di avere la possibilità di continuare a sfruttare i dati per i quali si dispone del consenso, quale è l’incasso medio annuo che si ottiene dal singolo cliente a cui si riferiscono i dati raccolti e quale è la percentuale di guadagno su quell’incasso».
Per Torchio, questa è una profilazione «essenziale per poter dare un valore ai dati. Occorre quindi improntare banche dati quanto più complete delle informazioni disponibili, per poi passare alla loro analisi e valorizzazione».
Il titolare del consenso al trattamento dei dati, e siamo alla terza opzione, può iscrivere a bilancio il valore dei dati. «La possibilità di iscrivere nel bilancio l’asset “dati” è subordinato, dai principi contabili nazionali, a che si tratti di diritti giuridicamente tutelati, che siano stati acquistati a titolo oneroso e che sia prevedibile il recupero del costo sostenuto sulla base dei flussi di reddito e di cassa futuri».
Quale è, dunque, l’utilità di iscrivere a bilancio i dati? Secondo Torchio «è una opportunità che può essere colta, sulla base di un percorso che deve essere sostenibile giuridicamente e fiscalmente, da chi ha interesse a rappresentare il valore effettivo della propria azienda, che può essere superiore a quello del patrimonio netto contabile, trasmettendo in tal modo una informazione che porta fiducia quanto alla solidità dell’impresa, anche in un’ottica di possibile circolazione della stessa».
Fabio Sgroi
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