venerdì 07 Novembre 2025

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CONTAGIO DA COVID-19 E RESPONSABILITA’ DEL DATORE DI LAVORO: LA PAROLA ALLE COMPAGNIE DI TUTELA LEGALE

Si discute ancora sul chiarimento dell’Inail di qualche giorno fa, secondo cui non c’è connessione tra il riconoscimento dell’origine professionale del contagio da Covid-19 e la responsabilità del datore di lavoro. E in sede penale e civile sarà sempre necessario dimostrare il dolo o la colpa per il mancato rispetto delle norme a tutela della salute e della sicurezza sui luoghi di lavoro. Il commento di Arag, Das, Roland, Tutela legale Spa e Uca Assicurazione.  

Nessuna connessione tra il riconoscimento dell’origine professionale del contagio da Covid-19 e la responsabilità del datore di lavoro. Il chiarimento è arrivato dall’Inail qualche giorno fa, dopo che si era scatenato un dibattito assai acceso fra gli addetti ai lavori e non. Dunque, in sede penale e civile sarà sempre necessario dimostrare il dolo o la colpa per il mancato rispetto delle norme a tutela della salute e della sicurezza sui luoghi di lavoro. Basta questa precisazione per dissipare eventuali dubbi oppure no? La responsabilità del datore di lavoro è davvero “salva”, in questo contesto? La discussione è lungi dall’essere chiusa.

Per capirne di più, Tuttointermediari.it ha chiesto alle compagnie specializzate nella tutela legale un commento sulla questione. Ed ecco cosa è emerso.

Roberto Grasso

«Indipendentemente da quanto precisato dall’Inail, il rischio del datore di lavoro di un coinvolgimento in un procedimento penale e civile è molto alto». Così esordisce Roberto Grasso, director & general manager di Das, secondo cui «in una situazione come quella che stiamo vivendo, sono numerosi gli adempimenti per la tutela della salute e dell’incolumità personale (art.2087 Codice Civile e D.Lgs 81/2008) dei propri dipendenti che il datore di lavoro è tenuto a rispettare: sanificazione ambienti, distanziamento sociale, percorsi di entrata/uscita separati e via dicendo».

Cosa succede se un dipendente dovesse incorrere nel contagio? «Innanzitutto va verificato se abbia rispettato il protocollo in vigore in azienda, disposto dal datore di lavoro a tutela della salute di tutti i dipendenti, e inoltre se abbia  effettivamente contratto l’infezione sul luogo di lavoro e non in altre sedi». E ciò non è semplice, come sottolineato dalla stessa Inail. «Nonostante l’onere probatorio sia alquanto complesso», fa presente Grasso, «il datore di lavoro è comunque altamente esposto al rischio di un’azione penale e civile nei suoi confronti. Basti pensare, a titolo esemplificativo,  alle conseguenze di un episodio di infezione in azienda e alle possibili accuse per non aver agevolato, laddove possibile,  delle misure alternative di adempimento della prestazione lavorativa, per esempio lo smart working, oppure per non aver garantito il rispetto delle distanze di sicurezza tra le postazioni di lavoro».

Non solo. Il manager di Das ricorda come sia «fondamentale che il datore di lavoro sia tenuto a impedire il contagio di chiunque entri in azienda o nell’esercizio commerciale,  non solo i dipendenti,  ma anche soggetti terzi: pensiamo a un cliente di un bar o di un ristorante o a un turista accolto da uno stabilimento balneare. In tutti questi casi, presumibilmente, il datore di lavoro potrebbe non avere responsabilità, ma dovrà comunque provare la propria estraneità ai fatti,  difendendosi dalle accuse nei diversi gradi di giudizio. Nonostante all’esito del procedimento possa venire assolto, tutte le spese sostenute resteranno a suo carico. Per questo la polizza di tutela legale diventa uno strumento indispensabile per supportare il titolare dell’azienda nelle varie fasi della vicenda e sollevarlo dall’onere delle spese legali, peritali e processuali».

Adelaide Gilardi

Adelaide Gilardi, amministratore delegato di Uca Assicurazione, ritiene che «la presunzione di Rc e penale posta in capo al datore di lavoro, pur mitigata dai chiarimenti forniti dall’Inail nel comunicato del 15 maggio scorso, che ancorano l’accertamento di dolo o colpa alla mancata osservanza delle norme a tutela della salvaguardia e sicurezza del lavoratore  (che resta il bene primario da proteggere), deroghi all’onere della prova del principio di nesso causale. E soprattutto metta in ginocchio la già provata fiducia nella ripresa e le possibilità di rilancio nel nostro paese. La prevenzione del rischio di contagio passa indubbiamente dalla necessità di messa in sicurezza dei luoghi di lavoro, ma la valutazione di merito a cui Inail è stata tout court preposta viola palesemente la certezza del diritto e la tutela dei soggetti attori del rilancio, che subisce una brusca frenata proprio in ragione dell’inadeguatezza e incertezza del quadro normativo delineato, gravando l’imprenditore di responsabilità invece spettanti alle istituzioni».

Insomma ltre al rischio di contagio, per il datore di lavoro si aprono nuovi fronti e si aggiungono altri rischi: «Basti pensare che, in un quadro di emergenza pandemica, la mutevolezza del virus comporterà un aggiornamento costante nella predisposizione e allestimento delle misure di sicurezza, per conseguire l’effettiva messa in sicurezza dei luoghi di lavoro, elemento fondante la prova della responsabilità dell’infortunio», afferma Gilardi. «A questo si aggiunga l’estensione della causa lavoristica all’infortunio in itinere in quadro pandemico,  le inevitabili richieste di danno cosiddetto differenziale, le possibili azioni di regresso/rivalsa Inail conseguenti agli infortuni sul lavoro riconducibili a lesioni e omicidio, i contenziosi di natura contrattuale con fornitori di “nuove” prestazioni (sanificazione, materiale a tutela della salute, igiene, sicurezza dei luoghi di lavoro), l’esposizione economica connessa a potenziali, e per diversi profili, molteplici contenziosi con la garante per la Rco che le disposizioni Inail avallano, solo per citare alcuni fra i minati  “campi di battaglia” che attraversa oggi l’imprenditore, che giunge già “provato” alla riapertura post lockdown».

E non è finita. «Se poi si considera ancora il quadro normativo composito quanto complesso ed eterogeneo che si staglia anche per l’autonomia legislativa delegata alle regioni, con inevitabili riflessi in punto valutazioni infortunio-Inail, mi consenta il gioco di parole, è davvero un’impresa gestire i nuovi rischi di impresa che si affiancano a quelli connaturati all’attività. E in questo contesto, il datore di lavoro è giustamente preoccupato su più fronti. La copertura di tutela legale rappresenta più che una opportunità, uno strumento imprescindibile di garanzia per il rilancio». 

Andrea Andreta

Per Andrea Andreta, chief  executive officer di Arag Se Italia è «certamente condivisibile (con riferimento al Decreto Cura Italia e alla circolare Inail del 3 aprile scorso, che hanno stabilito che l’infezione da Covid-19 debba essere riconosciuta come infortunio sul lavoro e, in quanto tale, soggetta a copertura assicurativa Inail)  l’obiettivo di maggior tutela per i lavoratori che operano in condizione di particolare esposizione al rischio, come per esempio medici e infermieri dipendenti di aziende ospedaliere o lavoratori fortemente esposti al contatto con il pubblico. Come è noto, però, l’estensione di questo principio a tutte le imprese, incluse quelle che non hanno un rischio specifico, ha generato molte preoccupazioni nelle imprese».

Perplessità dovute principalmente ai rischi civili e penali, dei quali potrebbe trovarsi a dover rispondere il datore di lavoro: «Questi può, infatti, essere chiamato a rispondere del reato di lesioni o di omicidio colposo a fronte di una infezione da Covid-19 che potrebbe essere stata contratta ovunque», fa presente Andreta. «Sono convinto, e lo dico tanto da responsabile di un’impresa quanto da assicuratore, che queste perplessità siano fondate: si trasferisce infatti su aziende che non hanno un’esposizione specifica al Covid-19 un aggravamento di rischio rilevante. È fuori discussione che la tutela dei lavoratori sia un dovere primario delle imprese, dettato dall’etica e dalla responsabilità sociale prima ancora che dalle norme: l’applicazione dei protocolli e delle norme di sicurezza previsti rappresenta certamente un’esimente e la successiva circolare dell’Inail ha chiarito una serie di punti importanti. Non ultimo il fatto che, per i lavoratori non soggetti a un rischio specifico, l’onere di provare di aver contratto il virus in azienda resti in capo a chi ha subito il danno, in caso di responsabilità civile, o del Pm in caso di responsabilità penale».

Resta però il fatto che considerare l’infezione da Covid-19 infortunio professionale per imprese che non abbiano un rischio specifico «sia una forzatura, che potrà comportare un aumento di contenziosi», riconosce Andreta. Perché se da un lato «sarà difficile per il danneggiato dimostrare di aver contratto l’infezione in azienda, è altrettanto vero che l’esito potrà essere incerto anche per imprese che abbiano applicato in modo diligente e in buona fede le misure di sicurezza, ponendo al primo posto la tutela della salute dei propri lavoratori e lavoratrici: basti pensare, in proposito, all’incertezza normativa causata dalle diversità fra provvedimenti governativi e regionali oppure alle difficoltà di approvvigionamento di dispositivi di protezione certificati».

Giovanni Grava

«L’articolo 42 del Decreto Legge 18/2020 (noto come decreto Cura Italia), poi convertito con la legge n. 27/2020, ha riconosciuto che il contagio da Covid-19, se avvenuto in occasione di lavoro, costituisce un infortunio protetto dall’assicurazione obbligatori Inail», sottolinea Giovanni Grava, amministratore delegato di Tutela Legale Spa. «Da qui deriva il diritto del lavoratore ad essere indennizzato dall’Inail per l’infortunio subito. Dal punto di vista dei datori di lavoro, tale equiparazione non comporta alcuna conseguenza sui profili di responsabilità, che permangono inalterati, rilevando sia in sede civile, per l’eventuale risarcimento del danno, che penale, per le numerose ipotesi di reato previste, ad esempio, dal D. Lgs. 81/2008 (omessa valutazione dei rischi derivanti dalla pandemia, omessa informativa ai lavoratori circa i rischi da contagio, omesso programma di interventi da adottare i caso di pericolo, per citarne alcune) o, per i casi più gravi, dagli articoli 589 (omicidio colposo, con l’aggravante prevista dal secondo comma per le violazioni delle norme antinfortunistiche) e 590 del codice penale (lesioni colpose)».

Il mondo dell’impresa, prosegue Grava, «è in subbuglio e non passa giorno senza che da esso si levino voci allarmate che evidenziano come da tale riconoscimento possa facilmente derivare, oltre a un carico organizzativo impegnativo da sostenere in termini di investimenti, anche e soprattutto una responsabilità personale del datore di lavoro molto gravosa. A ben vedere, tuttavia, tale responsabilità non deriva dall’articolo 42 citato, avente esclusivo contenuto riparatorio, ma dall’articolo 2087 del codice civile (risalente al 1942) che stabilisce che il datore di lavoro adotti tutte le misure necessarie a tutelare l’integrità fisica dei lavoratori».

Per Grava, «forse sorpresa dal forte grido di allarme riportato dai media, l’Inail si premura di osservare che “dal riconoscimento del contagio come infortunio sul lavoro non deriva automaticamente una responsabilità del datore di lavoro” (e ci mancherebbe). L’istituto precisa poi che l’eventuale responsabilità del datore di lavoro deve essere rigorosamente accertata attraverso la prova del dolo o della colpa». L’amministratore delegato di Tutela Legale Spa non ha dubbi: «Si tratta in realtà di una precisazione del tutto pleonastica, in quanto essa è da riferirsi a qualunque tipo di addebito penale in capo a qualsivoglia soggetto, non solo ai datori di lavoro per eventuali violazioni penali conseguenti al Covid-19».

Per Grava, quindi, non c’è «nulla di nuovo e di diverso rispetto ai principi generali del diritto. Da questo punto di vista il commento dell’Istituto di Assistenza, rilevando unicamente ai fini assicurativi, non smentisce la necessità imprescindibile per qualunque imprenditore: gestire il proprio rischio penale nel modo più efficace possibile. Se infatti il principio della presunzione di innocenza impone ai pubblici ministeri l’onere della prova per gli addebiti che muoveranno ai datori di lavoro, questi dovranno preventivamente disporre ogni misura organizzativa adeguata a realizzare un’ottemperanza piena ed efficace della complessa normativa sulla sicurezza negli ambienti di lavoro e, in parallelo, predisporre il trasferimento assicurativo del rischio penale», conclude Grava.

Pietro Pipitone

Nella nota dell’Inail viene ribadito più volte il concetto che «il datore di lavoro risponde penalmente e civilmente delle infezioni di origine professionale solo se viene accertata la propria responsabilità per dolo o per colpa», soffermandosi sulla difficoltà di fondo di poter dimostrare questa responsabilità da parte del Pm in ambito penale o dal magistrato in quello civile. «Questo non vuol dire che non si sarà maggiormente esposti al rischio di procedimenti civili e penali causati dal coronavirus: infatti, a ogni infezione potrà sempre corrispondere una richiesta di risarcimento del danno o un accertamento da parte delle autorità per verificare le misure di sicurezza predisposte, fino ad arrivare, nei casi più gravi ma non così rari, a un’indagine penale qualora il dipendente abbia avuto conseguenze ospedaliere prolungate dal virus, se non anche il decesso». È l’opinione di Pietro Pipitone, direttore generale e rappresentante generale di Roland per l’Italia.

«La difficoltà nel determinare la responsabilità porterà inevitabilmente a un allungamento dei tempi della giustizia, con la conseguente lievitazione delle spese legali, fosse anche per arrivare a un’archiviazione o un’assoluzione», dice. C’è poi un altro aspetto: «Una maggiore difficoltà nel determinare la responsabilità colposa o dolosa del datore di lavoro in caso di infezione può portare anche un ulteriore rischio, quello di favorire la parte attrice: se il giudice si troverà di fronte una situazione che può essere interpretata legittimamente in diversi modi, non è detto che la soluzione applicabile al caso di specie sia sempre quella a vantaggio del datore, data proprio questa difficoltà oggettiva».

In conclusione, per Pipitone «la speranza che il Covid-19 non porti ulteriori conseguenze dannose per i datori di lavoro, già fortemente colpiti sotto l’aspetto economico, così come specificato dall’Inail, potrà essere confermata solo quando si avranno le prime decisioni da parte della giustizia in tal senso; sicuramente, questo però non vuol dire che ci saranno meno procedimenti in relazione a possibili infezioni da Covid-19, con pesanti spese legali da sostenere indipendentemente dall’esito favorevole del procedimento».

Fabio Sgroi

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